Appunti in tema di pandemia da Covid-19: obbligo di chiusura degli esercizi commerciali e persistenza dell’obbligo di pagamento del canone nella sua interezza
La pandemia e il “lockdown”
A seguito del Provvedimento del 7 marzo 2020 per alcune regioni italiane, esteso il successivo 9 al resto del territorio, è stata disposta la chiusura di una cospicua serie di attività commerciali, sia della ristorazione che delle vendite di generi non essenziali, secondo quanto poi formalizzato nell’articolo 1 del D.P.C.M. del successivo 11 marzo, poi integrato dal successivo D.P.C.M. del 22 marzo, limitando l’apertura a categorie specifiche e determinate, meglio descritte nei codici ATECO o, nel caso della ristorazione, allo svolgimento dell’attività di catering.
Il tutto, in concreto, al fine di concorrere all’abbattimento della diffusione del virus secondo le procedure di limitazione dei contatti sociali il cosiddetto “lockdown”.
Precipitato fattuale del provvedimento è stata la definitiva chiusura dell’attività commerciale in essere, prima ancora esercitata con modalità e forme ridotte, e la memoria corre al distanziamento nei ristoranti con i coperti posti “a scacchiera”, con la necessaria questione sottostante subito insorta, afferente alla debenza del canone locatizio.
L’obbligazione del conduttore – Il pagamento del canone
L’obbligazione principale del conduttore, benché non certo l’unica, ma statisticamente la più frequente fonte di contenzioso, è il pagamento del canone alle scadenze pattuite.
Trattasi, ovviamente, di obbligazione di dare un quid fungibile, ossia il denaro, atteso che nello scenario della Legge n. 392/1978, regolante i rapporti locatizi, il corrispettivo previsto dall’articolo 1587 del codice civile – che di per sé implicherebbe anche un diverso dare o un facere patrimonialmente valutabile – si trasforma nell’obbligazione tipizzata di pagare una somma di denaro, ossia il canone pattuito.
E, versandosi in ipotesi di un quid fungibile, il bene denaro non è un qualcosa che l’attuale pandemia renda non o difficilmente recuperabile, in termini di genus, con la conseguenza che l’impossibilità o la difficoltà di procurarsene non implica in alcun modo una maggior onerosità o una impossibilità sopravvenuta della prestazione a carico del conduttore.
La questione, peraltro, merita una riflessione alla luce del comma 6-bis dell’articolo 3 del D.L. n. 26/2020 (ossia il primo decreto di lockdown delle cosiddette “zone rosse”), per come introdotto dall’articolo 91 del D.L. n. 18/2020 (ossia il Decreto “Cura Italia”) che, specificamente, recita “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Tale comma, tra l’altro inserito in altra norma “territoriale” nel senso di applicabile originariamente solo ad alcuni territori (l’ormai nota Codogno e gli altri 12 comuni), non sembra avere diretta applicazione alla fattispecie, sia perché essa sembra cesellata su contratti a consegna unica o a consegne ripartite, ma non a contratti ad esecuzione continuata o periodica quale il contratto di locazione, sia perché l’ipotesi implicherebbe un locatore che, in luogo dell’accettazione del pagamento tramite accredito sul conto, pretenda che il proprio conduttore si rechi fisicamente a pagare il canone con la consegna della somma presso il proprio domicilio.
Clausola ancora decisamente frequente nella modulistica commerciale standard, ma di fatto obsolescente, se non proprio obsoleta, alla luce della concreta realtà dei traffici commerciali.
L’unico dubbio attiene al fatto se detta norma, che, secondo almeno un orientamento dottrinario esposto (si veda Dolmetta, “Rispetto delle misure di contenimento della pandemia e disciplina dell’obbligazione”, in “Il Caso” 11.4.2020) opera anche in assenza di eccezione in senso lato del conduttore, possa ritenersi applicabile nel caso di penali contrattuali, tenuto conto che, in senso strettamente tecnico, l’eventuale ritardo nell’adempimento appare difficilmente correlato, in punto di causalità materiale, al rispetto delle misure sanitarie previste dalle varie norme.
Un suggestivo richiamo, più generale ma meritevole di attenzione, a tale norma, è invece correlato ad una lettura costituzionalmente orientata (qui, ovviamente, con riguardo alla solidarietà sociale) del principio dell’esecuzione del contratto secondo buona fede (sempre Dolmetta, ibidem), avuto riguardo agli interessi del creditore, qui il locatore, e del debitore – conduttore.
Analogamente, l’altra norma del medesimo Decreto Cura Italia che si occupa del pagamento dei canoni di locazione, e segnatamente l’articolo 65, riconosce un credito di imposta pari al 60% del canone di locazione pagato a tre condizioni concorrenti ossia:
- che il canone sia stato pagato effettivamente;
- che il canone si riferisca ad un immobile catastalmente C/1 e si riferisca ad attività per le quali sussista l’obbligo di chiusura;
- che il credito sia portato in compensazione, non essendo previsti rimborsi.
Ora, sia consentita una notazione eccentrica rispetto all’oggetto della presente riflessione, ma risulta invero incomprensibile sia la limitazione del credito di imposta al solo caso di un saldo passivo fiscale (si pensi ad un’attività commerciale iniziata dopo ampi lavori di ristrutturazione fonte di credito di imposta), sia, e soprattutto, la limitazione agli immobili catastalmente C/1, come se determinate attività commerciali che necessitano di apertura al pubblico, delle quali è stata disposta la chiusura, e il pensiero corre in primis alle agenzie immobiliari, non possano essere svolte in locali catastalmente non C/1.
Peraltro, tornando al tema della presente riflessione, l’articolo 65 costituisce un elemento indiziario qualificante nel senso che la prestazione possa essere adempiuta, tanto da riconoscere il credito di imposta relativo, e che quindi il pagamento del canone non possa qualificarsi come prestazione impossibile, ma, se invocata a conferma dell’esistenza della persistenza o della piena persistenza dell’obbligo di pagare, e quindi della piena vigenza del sinallagma contrattuale, prova, ad avviso di chi scrive, un po’ troppo.
Questo in quanto appare doveroso concentrarsi non sulla possibilità di adempimento da parte del conduttore, ossia del pagamento della somma di denaro, ma sulla sussistenza e sulla possibilità di un esatto adempimento da parte del locatore.
Da qui l’analisi sulla prestazione cui il locatore è tenuto.
L’obbligazione del locatore in caso di concessione di un immobile commerciale – La mera messa a disposizione della res locata?
Sin dall’inizio delle chiusure coattive degli esercizi commerciali correlate alla pandemia ci si è posti la domanda se il mancato godimento del bene costituisse ipotesi di impossibilità sopravvenuta o quantomeno di eccessiva onerosità sopravvenuta, come tali presupposto per la dichiarazione di risoluzione del contratto per causa non imputabile alle parti.
La questione, come detto, è stata affrontata sotto i due concorrenti profili in relazione a quella modesta utilità che un locale commerciale chiuso può ancora presentare per un conduttore che non lo possa utilizzare per la vendita, residuando comunque la sua funzione di magazzino – deposito di merce e di arredi che ornano il negozio, dalle stigliature agli impianti di riscaldamento e condizionamento.
Da qui la questione posta nella duplice forma (impossibilità o mera onerosità sopravvenuta del contratto) e la risposta data, spesso negativa.
Tanto in quanto l’obbligazione principale del locatore è quella di consentire il godimento della res locata mantenendola in stato adatto all’uso, dopo averla consegnata esente da vizi al momento della nascita del rapporto contrattuale.
Tale il contenuto dell’articolo 1575 c.c., con la correlativa conclusione che, essendo stata la cosa consegnata esente da vizi, non essendo il divieto di apertura questione attinente allo stato d’uso del locale e, infine, essendo pacifico il godimento verso le molestie giuridiche di terzi (ex art. 1585, 1° comma, c.c.), non si darebbe luogo a nessun inadempimento del locatore
Tesi questa che trova conforto nella consolidata giurisprudenza di legittimità sorta in relazione alla specifica destinazione che il conduttore vuole imprimere al bene locato, spesso a fini di ristorazione, questione questa indifferente per il locatore, salvo che egli non abbia garantito espressamente detta idoneità (cfr. Cass. 1735/2011 “nei contratti di locazione relativi ad immobili destinati ad uso non abitativo, grava sul conduttore l’onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell’attività che egli intende esercitarvi, nonché al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative; ne consegue che, ove il conduttore non riesca ad ottenere tali autorizzazioni, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento a carico del locatore, e ciò anche se il diniego sia dalle caratteristiche proprie del bene locato”).
Del resto anche l’orientamento più rigoroso verso il locatore, riferibile quantomeno a Cass. 16 giugno 2014, n. 13651, e successive sentenze che alla stessa si richiamano, pone come limite alla responsabilità del locatore una sua espressa assunzione dell’obbligo di garantire una data destinazione o l’obiettiva inidoneità del bene locato alla destinazione indicata in contratto, fattispecie entrambe che qui non entrano in gioco.
Tale tesi si giova anche della puntuale osservazione che gli elementi critici ostativi al godimento si appuntano principalmente in vizi originari o sopravvenuti, laddove né la pandemia né i provvedimenti governativi sono sussumibili nella categoria giuridica del vizio.
Sia consentito offrire qualche spunto dubitativo rispetto a conclusioni così granitiche.
Va preliminarmente rammentato che, sperabilmente, e mentre si scrivono queste considerazioni, stiamo parlando di una pandemia temporanea cui, correlativamente, fanno pendant provvedimenti governativi restrittivi del commercio sempre a natura temporanea.
L’ipotesi con la quale ci si confronta, pertanto, non attiene direttamente alla risoluzione contrattuale per impossibilità o eccessiva onerosità sopravvenuta, ma, in ipotesi, alla temporanea impossibilità della prestazione per factum principis.
Si sta vertendo, per dirla in altri termini, di temporanea impossibilità di eseguire una determinata prestazione, secondo i parametri dell’articolo 1256 secondo comma c.c.
Con il doveroso corollario che la questione sembra trovare il suo addentellato non nelle norme degli articoli 1462 o 1467 c.c., ma nell’eccezione di inadempimento.
Come fatto puntualmente osservare dalla giurisprudenza di legittimità in una decisione della scorsa primavera (Cass. 29.3.2019 n. 8760), resa proprio in ipotesi di parziale impossibilità della prestazione in materia locatizia, “L’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., è un rimedio necessariamente temporaneo, in quanto delle tre l’una: -) se l’inadempimento che l’ha provocata persiste, esso condurrà alla risoluzione del contratto, e l’eccipiente sarà liberato dalla propria obbligazione; -) se l’inadempimento che l’ha provocata cessa, cessa anche il diritto di autotutela dell’eccipiente, il quale sarà perciò obbligato all’adempimento; -) se l’inadempimento che l’ha provocata non esisteva, ovvero non era tale da giustificarla, l’eccezione fu malamente sollevata, ed anche in questo caso l’eccipiente sarà tenuto all’adempimento, ovvero sarà esposto all’azione di risoluzione per inadempimento”.
Tanto premesso, appare opportuno tornare a quale sia l’obbligazione del locatore, ossia se essa si intrinsechi nel mettere a disposizione un determinato bene, quale quello individuato in contratto, o se nell’obbligazione del locatore afferente ad un locale commerciale sia individuabile un quid pluris, relativo a che cosa si conceda in locazione.
E’ del tutto evidente che la specifica destinazione merceologica, di per sè, non ha rilevanza, essendo il locatore del tutto estraneo alle scelte imprenditoriali del proprio conduttore, con la sola e pur non irrilevante eccezione dell’articolo 34, secondo comma, della L. n. 392/1978 in virtù del quale, ove l’attività successivamente esercitata nei locali sia analoga a quella preesistente la cosiddetta “indennità di avviamento” viene raddoppiata.
Ma, a parte tale caso, le progettualità imprenditoriali ed economiche del conduttore non sono questione cui il locatore sia chiamato a partecipare, non essendo egli compartecipe delle scelte imprenditoriali del primo, salvo ovviamente i casi sopra richiamati in termini di idoneità garantita dal locatore ad un uso specificato in contratto.
Tuttavia, ad avviso di chi scrive, l’obbligazione che il locatore assume non si esaurisce nel garantire il pacifico godimento, integrando anche il maggior obbligo di garantire il godimento di un immobile che sia utilizzabile per i contatti con un pubblico indiscriminato di utenti e consumatori, secondo il dictum dell’articolo 35 della L. n. 392/1978.
Questo per il contenuto intrinseco del “tipo” locazione di immobile commerciale normativamente previsto dalla legge qui sopra richiamata.
L’indennità di avviamento, prevista nell’articolo 34 della legge, spetta infatti indipendentemente non solo dalla redditività dell’attività commerciale ivi esercitata, essendo in astratto possibile riconoscerla anche a un’attività che non abbia prodotto o non stia producendo reddito (così ex multis Cass. 16.9.2000 n. 12279), ma anche dalla esistenza di un concreto pregiudizio subito dal conduttore per effetto del rilascio del bene, atteso che la stessa Suprema Corte l’ha riconosciuta anche nel caso, invero particolare, se non di scuola, nel quale un’agenzia si era trasferita di piano all’interno del medesimo fabbricato.
Indennità che, per sua natura, costituisce un essentialia negotii, non derogabile o rinunciabile al momento della conclusione del contratto, (salvo che nelle “grandi locazioni commerciali”), e tanto in quanto un’eventuale clausola in deroga sarebbe automaticamente sostituita dalla previsione contrattuale, come da sempre affermato dalla giurisprudenza di legittimità, che riconosce la natura forse obsoleta, ma necessariamente cogente ed inderogabile, della previsione normativa (esattamente in termini, sul punto, da ultima Cass. 30.9.2019 n. 24221).
Se, pertanto, l’indennità di avviamento, derivante dal potenziale contatto con la clientela, costituisce elemento imprescindibile del contenuto contrattuale, e del correlativo diritto del conduttore a pretenderla, appare logicamente doveroso correlare tale pretesa, qualificante il tipo legale “locazione di immobile destinato ad un’attività commerciale”, all’obbligazione, propria del locatore, di garantire il godimento di un immobile potenzialmente destinato al contatto con la platea dei clienti.
Obbligazione cui, ovviamente, allo stato, il locatore non può adempiere, in forza dei provvedimenti sopra richiamati.
Osserva al riguardo Cass. 25.6.2019 n. 16918 che “Anche dal punto di vista degli obblighi del locatore, quindi, il sinallagma non è “pietrificato” con una mera consegna dell’immobile, ma nella sua dinamica facies esecutiva deve andare oltre una mera consegna e venire poi costantemente integrato dal preservare il pieno godimento del conduttore”.
E’ del tutto evidente che tale inadempimento al pieno godimento non è imputabile al locatore, onde nessuna pretesa risarcitoria può essergli utilmente rivolta, ma, sotto il profilo del sinallagma, la parte locatrice non sta adempiendo puntualmente.
In ogni caso, anche volendo accedere alla tesi che l’adempimento del locatore, concretandosi solo nel garantire il godimento, sia pieno ed esatto, la questione si riproporrebbe sotto il diverso profilo dell’interesse del creditore – conduttore a quell’adempimento, il tutto da leggersi, necessariamente, anche sotto il profilo del principio solidaristico nei rapporti obbligatori.
E’ abbastanza chiaro che il conduttore può avere allo stato un interesse al godimento del bene nei modesti limiti dell’avere un deposito di merci e attrezzature, che certo non coincide con l’interesse al momento della stipula del contratto.
Benché la questione sia raramente apparsa nelle Corti Superiori, è stato richiamato l’interessante precedente di Cass. 24.7.2007 n. 16315, anche qui correlato ad una epidemia (precisamente di dengue nei paesi caraibici), nel quale la Cassazione, nel ritenere giustificato il rifiuto di ricevere la prestazione di un pacchetto turistico “all inclusive” in un villaggio vacanze, ha ritenuto come la ragionevole paura di contrarre il contagio da parte del soggetto che lo aveva acquistato integrasse il venir meno dell’interesse del creditore, osservando che “ … l’impossibilità di utilizzazione della prestazione non viene in realtà a sostanziarsi in un impedimento precludente l’attuazione dell’obbligazione, non presupponendone di per sè l’obiettiva ineseguibilità da parte del debitore. Pur essendo la prestazione in astratto ancora eseguibile (cfr. Cass., 27/9/1999, n. 10690), il venir meno della possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto (nel caso, lo “scopo di piacere” in cui si sostanzia la “finalità turistica”), essa implica il venir meno dell’interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera del creditore”.
In sostanza, anche dinanzi ad una prestazione formalmente eseguibile (nel caso di queste osservazioni, il garantire il godimento del locale come spazio fisico), quello che è venuto comunque meno è l’interesse a quella prestazione, sussunto, nella specie, nella figura della causa concreta o, forse, della causa tipica caratterizzante il sottotipo “locazione di immobile commerciale”.
Anche seguendo tale tesi si ha pertanto una prestazione inutile, che quindi esclude qualsiasi inadempimento del locatore, e pertanto qualsiasi pretesa risarcitoria nei suoi confronti, ma che non può non riflettersi sul sinallagma contrattuale.
Alla luce delle notazioni qui sopra esposte, sia che si voglia qualificare il locatore come non esattamente adempiente, sia che lo si voglia qualificare come adempiente una prestazione al cui adempimento, allo stato, il conduttore non ha interesse, emerge comunque come al conduttore venga chiesto di adempiere, pagando il canone, in cambio di una prestazione deficitaria o, quantomeno, parzialmente inutile.
Da qui la necessaria analisi sull’applicazione dell’istituto dell’eccezione di inadempimento nel rapporto locatizio.
Mancato godimento dell’immobile per finalità commerciali ed eccezione di inadempimento
L’analisi sulla possibilità per il conduttore di invocare, allo stato, l’eccezione di inadempimento ai sensi dell’articolo 1460 c.c. è stata oggetto di indagine da parte della Corte di Cassazione (ovviamente della Terza Sezione, competente in materia locatizia), quantomeno in due recenti, puntuali ed argomentate decisioni nello scorso anno, segnatamente Cass. 25.6.2019 n. 16918, e Cass. 26.7.2019 n. 20322.
Va detto, per amor di scienza che, benché si sia trattato di decisioni assunte in date diverse e con relatori diversi, la composizione del Collegio giudicante, in entrambe le camere di consiglio, era la medesima.
Le decisioni in esame attenevano, come fattispecie concreta, l’una ad un caso di assenza di titoli abilitativi sul bene a causa di lavori di ristrutturazione compiuti dal conduttore e tali da richiedere una nuova agibilità, l’altra ad un caso di destinazione catastale dell’immobile concesso in locazione quale magazzino (C/2), destinazione non modificabile in locale commerciale nonostante la domanda proposta in sede amministrativa.
In entrambi i casi il conduttore aveva ridotto l’ammontare del canone alla luce del denunciato inadempimento del locatore, vedendo la propria tesi non accolta dalle Corti di merito, sotto il profilo che non sarebbe stata ammissibile una riduzione parziale del canone a fronte di un godimento, sia pure residuo, come da giurisprudenza consolidata di legittimità.
Le decisioni sopra richiamate sottopongono a serrata critica tale tesi, operando un significativo revirement del precedente orientamento.
In particolare, entrambe le decisioni sconfessano la tesi in forza della quale l’applicazione dell’articolo 1460 c.c. sarebbe residuale, sottoposta ad uno schema definibile “a tutto o nulla”, in forza del quale solo la totale mancanza della prestazione del locatore legittimerebbe la sospensione o la riduzione del canone, in ragione della presenza di una norma specifica, quale l’articolo 1578 c.c., che legittima il conduttore a chiedere giudizialmente la risoluzione del contratto o la riduzione del corrispettivo in presenza di vizi della res locata.
Evidenziano le due decisioni come l’articolo 1578 c.c. attenga ad una tutela giudiziale, ma tanto non esclude che l’articolo 1460 c.c. possa essere invocato nei rapporti di locazione con la stessa portata e le stesse modalità che caratterizzano il tipo di tutela stragiudiziale che la norma prevede in tutte le altre tipologie contrattuali.
Afferma la decisione 16918/2019 che “se, allora, la permanenza della detenzione della cosa locata è compatibile con la sospensione totale del canone nel caso in cui l’inutilizzabilità di detta detenzione renda totale anche l’inadempimento del locatore, qualora invece sussista ancora un grado di utilizzabilità dell’immobile locato, ovvero una “quota” di adempimento del locatore, il conduttore potrà sospendere in proporzione il versamento del canone, applicandosi quindi integralmente l’art. 1460” ma la complessa e lucida analisi della fattispecie astratta, contenuta in numerose pagine impone qui brevissimi richiami, suggerendosi qui, purtuttavia, la lettura integrale della decisione e in particolare della porzione afferente al nono motivo di ricorso.
Analogo l’argomentare della sentenza 20322/19 che, nel fare riferimento in primo luogo al medesimo precedente logico, la già richiamata ordinanza 8760/2019, afferma espressamente che “Ebbene, non vi è alcun dato positivo nè ragione logica o sistematica che impongano di adottare, con riferimento al contratto di locazione, una interpretazione diversa ovvero una versione per così dire più limitata di tale strumento di autotutela (ossia dell’articolo 1460 c.c.) e dei relativi presupposti”, ribadendo come l’eccezione di inadempimento in materia locatizia non sia difforme o quantitativamente diversa da quella invocabile in qualsiasi altro rapporto contrattuale.
Questo in quanto, come chiaramente ribadito in entrambe le sentenze, il parametro di riferimento, se si vuole la “cartina di tornasole” su cui valutare il ricorso all’eccezione di inadempimento è, e non può che essere, il principio di buona fede oggettiva, che regola l’esecuzione dei contratti, tenuto conto che, citando la decisione 20322/19 “nell’istituto della sospensione dell’adempimento regolato dall’art. 1460 c.c., assume il principio di correttezza e buona fede oggettiva ex artt. 1175 e 1375 c.c., al quale del resto fa esplicito rimando l’art. 1460, comma 2 là dove correla alla considerazione delle circostanze del caso concreto la valutazione della legittimità della sospensione secondo “buona fede”: correlazione che – si è osservato – non altrimenti può concretizzarsi se non nella “commisurazione del rilievo sinallagmatico delle obbligazioni coinvolte”, ossia nella “proporzionalità” dei rispettivi inadempimenti”.
Il responso è chiaro, anche in materia locatizia il mancato pagamento del canone va valutato secondo il principio di buona fede oggettiva, da determinarsi ovviamente caso per caso.
Un’ultima notazione: è stato osservato che il rapporto locatizio è per sua natura il prodotto di un contratto di durata e, per quanto possa valere, il canone di locazione, secondo lo schema contrattualmente in uso, è pattuito su base annua, da pagarsi in rate mensili, con la conseguenza che l’eventuale impossibilità transitoria dovrebbe valutarsi non in relazione al canone di quel mese (marzo od aprile), ma in relazione al complessivo canone annuo ed al godimento nell’intero anno, ai fini della valutazione della legittimità della sospensione o della riduzione del canone.
L’argomento è indubbiamente pertinente ed anche di sicuro interesse, sempre tenuto conto che, mentre si scrive questo contributo, il lockdown è in essere e il mese di maggio come momento di riapertura appare un qualcosa a metà tra un “wishful thinking” e una Fata Morgana.
Va peraltro detto che una valutazione sul punto non può prescindere dal parametro di valutazione in concreto del rapporto locatizio per quale esso è, o, per dirla in termini meno aulici, quale fosse la destinazione commerciale del bene, perché se in alcune ipotesi è possibile pensare ad un recupero di fatturato che possano far ritenere non legittimo il successivo mancato pagamento dei canoni non versati in tutto o in parte, in altri settori, e si pensi alla ristorazione di prossimità da banco, cappuccini e cornetti non consumati, e quindi venduti, a marzo ed aprile, non saranno consumati in più nei mesi a venire.
Al riguardo, l’unico elemento normativo esistente è rappresentato dall’articolo 1584 c.c. in materia di riparazioni con i richiami ivi contenuti al sesto della durata del rapporto locatizio (su base annua?) ed al limite massimo dei venti giorni previsti, norma se del caso suscettibile di applicazione analogica al presente caso.
Quello che però appare indubbio è che la buona fede è la regola del caso concreto, e che una valutazione della legittimità della sospensione totale o parziale del canone non possa prescindere da una valutazione attenta e puntuale, da rendersi necessariamente “caso per caso”, con l’aiuto di un esperto del settore.
Avv. Francesco Capecci