Il “diritto vivente” e la tutela del “fine vita” (un apparente ossimoro). Dalla perdita di chance al diritto alla dignità di vita fino all’ultimo giorno.
CASS. N. 10424 DEL 15 APRILE 2019 E LEGGE N. 38 DEL 15 MARZO 2010
Il “diritto vivente” e la tutela del “fine vita” (un apparente ossimoro). Dalla perdita di chance al diritto alla dignità di vita fino all’ultimo giorno.
Con la L. n. 38 del 15 marzo 2010 il Legislatore per la prima volta riconosce e garantisce il diritto del paziente terminale ad avere accesso alle cure palliative e alle cosiddette “terapie del dolore”, riforma decisamente innovativa persino per gli standard europei.
La giurisprudenza di legittimità già da tempo non era insensibile a tutelare le sofferenze patite e il periodo di vita finale di coloro che avevano una prognosi infausta per un male incurabile. Cass. Pen. Sez. VI del 27 giugno 2000 n. 10445[1] aveva confermato la sanzione verso una guardia medica che si era rifiutata di recarsi al domicilio di un’ammalata terminale di cancro per somministrarle una terapia per il dolore e Cass. Civ. Sez. III n. 23846 del 18 settembre 2008[2] aveva sancito la piena tutela sotto l’aspetto del “che fare” dal punto di vista medico – scientifico, e del come vivere secondo le proprie attitudini psicofisiche nel periodo residuo di vita. All’epoca, però, il diritto leso era qualificato quale perdita di chance (Cass. Civ, cit.). Più recentemente Cass. Sez. III Ord. n. 7260 del 23 marzo 2018[3] e Cass. Civ. n. 5641 del 9 marzo 2018[4] raffinano la tutela giuridica della persona nei suoi ultimi periodi di vita attraverso il “diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito infausto” anche attraverso “alternative di indole meramente palliative” (Cass. Ord. 7260/18 cit.). Tali evoluzioni a tutela della persona possono determinare la colpevolezza del sanitario che, seppur non abbia inciso sullo sviluppo o sulla durata della malattia o sull’esito finale abbia causato un peggioramento della qualità di vita (residua) non consentendo al paziente una “predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo” (Cass. 5641/18 cit.).
La recentissima Cass. Civ. Sez. III n. 10424 del 15 aprile 2019 richiama i principi contenuti nelle sentenze sopra accennate, connettendoli con i principi della legge 15 marzo 2010 n. 38 (la prima in Italia sulle cure palliative e sulla terapia del dolore ) – e della legge 22 dicembre 2017 n. 219[5] sul consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, CI DAT – pone un importante riconoscimento giurisprudenziale dei diritti legiferati nella stessa L. 38/10. Diritti quale l’estrema (come tempo residuo) libertà dell’individuo nell’autodeterminarsi. Libertà inscindibilmente connessa alla qualità di vita sia fisica che psichica che morale / religiosa.
Quindi la qualità della vita, anche se nell’ultimo suo tratto ancorché senza possibilità di guarigione, ha la piena dignità di vita e come tale deve essere tutelata non valendo la previsione a breve di exitus a ridurre la dignità umana consistente in questi casi nella libertà di autodeterminazione nelle scelte mediche (anche se solo palliative o del dolore), fisiche, psichiche, morali e religiose.
La tutela quindi non è della salute ma della dignità umana intesa quale qualità di vita fino all’ultimo, nell’ambito di quello che è il principio di ogni democrazia: il diritto di sapere e di decidere il nostro futuro.
Non a caso il paziente che fruisce delle cure palliative ha a disposizione un ventaglio di personale specializzato che lo assiste: dal medico specialista allo psicologo, dal fisioterapista all’assistente spirituale. Tutto questo sebbene in Italia ancora non vi sia uno specifico percorso di specializzazione universitaria in materia di cure palliative. Il legislatore ha infatti sopperito momentaneamente alla carenza di specialisti dapprima con la L. 147 del 2013, che deroga al requisito di specializzazione in materia con una esperienza pregressa di almeno tre anni[6] e recentemente con la legge di bilancio del 30 dicembre 2018 che al comma 522 prevede l’idoneità ad operare nelle reti di cure palliative per i medici già in servizio presso queste reti, ma sprovvisti dei requisiti riportati dal decreto del Ministero della Salute del 28 marzo 2013.
Avv. Francesca Colombaroni
Avv. Enrico Perrella
Note:
1 In Riv. Pen. 2000, 1135
2 In Nuova Giur. Civ. 2009, 3, 1, 284
3 In Giur. It., 2019, 2, 287 con nota C. Irti; in responsabilitamedica.it
4 In Foro It., 2018, 5, 1, 1579; in personaedanno.it
5 B. de Filippis, Biotestamento e fine vita, CEDAM 2018
6 In Riv. It. Cure Palliative (2018); 20 (4), Cure palliative: tanti i bisogni, pochi i medici, Dott. Italo Penco, (Dir. Sanitario Hospice Fondazione Sanità e Ricerca; Presidente della Società Italiana di Cure Palliative – SICP; Componente del Comitato tecnico sanitario, del Ministero della Salute, per l’attuazione dei principi contenuti nella legge 15 marzo 2010, n. 38).